Translate

martedì 7 ottobre 2014

Post 3. Miti e leggende sulle Pesche

Moltissime le leggende legate a questa pianta. Una di queste narra l'origine della pesca.

La leggenda della pesca 

Una leggenda, narrata sin da epoca remota, racconta la nascita della pesca.
Un vecchio pescatore,
L'albero di pesco di Van Gogh
dopo avere tirato con fatica a riva
la pesante rete che aveva calato in mare,
vide dibattersi sulla sponda un grande pesce.
Più tardi, a casa,
mentre lo puliva per cucinarlo,
trovò nel ventre
uno strano, singolare nocciolo.
Sotterrò con cura il seme
scavando una buca nella terra
antistante la sua capanna
ed annaffiando ogni tanto.
Dal germe spuntò un alberello,
che, nell’aria tiepida della primavera,
si ammantò di rosei fiorellini.
Il primo frutto ottenuto
venne chiamato pesca,
in omaggio alla sua provenienza marina.




IL MONTE DELLE PESCHE SACRE

Il racconto popolare è ambientato sul monte Sondo. Cima situata ad ovest di Kyongiu, attualmente nella Corea del sud. La salita richiede circa un ora e mezza di cammino. Il nome Sondo ha delle implicazioni interessanti giacché, nella lingua del luogo, “do” significa pesca e “son” soprannaturale.

La leggenda afferma che un giorno un abitante di un villaggio andò a pescare in un lago nascosto fra le cime delle montagne. Spinse la sua zattera in un insenatura che non aveva mai visto prima e avvicinandosi alla riva rocciosa, notò fra gli arbusti l’ingresso di quella che sembrava essere una grotta. Facendosi luce con la lucerna, entrò nella grotta e, percorsa una lunga caverna, sbucò, improvvisamente, in una luminosa vallata, completamente nascosta dall’esterno. Vagò come in sogno, ammagliato dalla bellezza del luogo, incontrò delle persone affabili che lo invitarono al villaggio e gli offrirono da mangiare delle pesche, le stesse che aveva visto crescere sugli alberi della valle. Si trovò così bene fra questa gente che si fermò per tre giorni prima di decidersi di tornare indietro. Quando tornò al suo villaggio, il pescatore non riuscì più a capire dove fosse, Non trovò più nessuno di quelli che conosceva. Persino nella sua casa viveva una famiglia che non aveva mai visto. Quando disse chi era, alcuni degli anziani del villaggio, ricordarono vagamente di aver sentito la storia di un uomo con quel nome, scomparso trecento anni prima, mentre stava pescando su un lago sperduto tra le montagne. Gli dissero che la sua vedova aveva allevato i figli da sola, con grandi sacrifici e che uno dei suoi discendenti vive ancora nel villaggio e lo potrebbe accompagnare alle tombe di famiglia. Al che il pescatore non credendo alle proprie orecchie gridò “ ma sono quel pescatore e sono stato lontano da casa solo tre giorni”. Gli anziani del villaggio lo guardarono con compassione, scuotendo la testa e pensando che non fosse in sé. Il pescatore, tornò sulla montagna, ritrovò il lago e cominciò a ricercare l’ingresso della grotta, inutilmente passò giorni e giorni fra i monti, ma tutto era invano. Nessuno credette alla storia del vecchio pescatore, ma l’idea che potesse esistere un giardino che produceva pesche soprannaturali si diffuse così tanto che il monte fu battezzato con il nome di Sondo, monte delle pesche sacre, nome con il quale, ancora oggi, è conosciuto.


C'è una leggenda che racconta la nascita di questo frutto:
"Un pescatore, dopo avere tirato con fatica a riva un grosso pesce, trovò nel ventre dello stesso uno strano nocciolo. Lo sotterrò davanti alla sua capanna e dal seme nacque un alberello, che a primavera si vestì di rosei fiorellini. Il primo frutto che ne derivò venne chiamato pesca, in omaggio alla sua provenienza".




"Momotarou, il figlio della pesca" 
La favola di Momotarō venne conosciuta in occidente attraverso il libro "Tales of old Japan" di Algernon Mitford, più noto come lord Redesdale, pubblicato nel 1871. Da allora Momotarō è rimasto forse il personaggio giapponese più popolare nel mondo, ma la favola è meno conosciuta.

Molti secoli fa viveva un vecchio taglialegna con la moglie. Un bel mattino il vecchio si recò tra le montagne con la sua roncola per raccogliere un fascio di legna, mentre la moglie scendeva al fiume per lavare i panni. Mentre lei camminava lungo il fiume, vide una pesca portata dalla corrente; così la raccolse e la portò a casa con sé, pensando di darla da mangiare al marito quando sarebbe rientrato.
Presto il vecchio rientrò dalla montagna e la buona donna gli mise davanti la pesca ma, mentre lei lo invitava a mangiarla, il frutto si aprì in due e venne al mondo piangendo un minuscolo bambino.

La vecchia coppia adottò il piccolo e lo crebbe come suo; e, siccome era nato dentro una pesca, lo chiamarono Momotarō.

Momotarō crebbe man mano fino a diventare forte e coraggioso, ed alla fine disse ai suoi anziani genitori adottivi:

"Vado all'isola degli orchi per prendere le ricchezze che vi hanno accumulato. Pregate e datemi qualche focaccia di miglio per il viaggio."

Così i due vecchi presero il miglio e gli prepararono le focacce; e Momotarō, dopo aver dato loro un affettuoso addio, uscì allegramente per i fatti suoi. Durante il viaggio incontrò una scimmia che gli schiamazzò:

"Kia! kia! kia! Dove stai andando, Momotarō?"

"Sto andando all'isola degli orchi per prendere il loro tesoro." rispose Momotarō.
"E che porti nel tuo sacco?"
"Sto portando le migliori focacce di miglio del Giappone."
"Dammene una, verrò con te." disse la scimmia.

Così Momotarō diede una focaccia alla scimmia, che la prese e lo seguì. Quando era andato ancora un po' avanti, sentì un fagiano chiamarlo:

"Ken! Ken! Ken! Dove stai andando Momotarō?"

Momotarō rispose come prima; ed il fagiano avendo chiesto ed ottenuto una focaccia, entrò al suo servizio e lo seguì. Dopo un altro po' incontrarono un cane, che gridò:

"Wow! Wow! Wow! Dove te ne vai, Momotarō?"
"Sto andando all'isola degli orchi a prendere il loro tesoro."
"Se mi dai una delle tue belle focacce di miglio, verrò con te." disse il cane.
"Con tutto il cuore." rispose Momotarō.

Così proseguì nel suo cammino assieme alla scimmia, al fagiano ed al cane. Quando arrivarono all'isola degli orchi, il fagiano volò sopra il'ingresso del castello, la scimmia si arrampicò sulle mura e Momotarō assieme al cane sfondò il portone ed entrò dentro. Poi diedero battaglia agli orchi, li misero in fuga e presero prigioniero il re.

Così tutti gli orchi resero omaggio a Momotarō, e gli portarono il tesoro che avevano accumulato. C'erano cappelli e mantelli che rendevano invisibile chi li indossava, gioielli che comandavano le maree e le correnti, e poi coralli, profumi, smeraldi, ambra, gusci di tartaruga, per non parlare di oro ed argento. Tutte queste cose erano state accumulate prima che Momotarō sconfiggesse gli orchi.

Così Momotarō tornò a casa coperto di ricchezze, e mantenne i suoi genitori adottivi in pace ed abbondanza per il resto delle loro vite.

Per la storia completa
http://www.ilbazardimari.net/leggende-orientali-momotaro/
Per vedere il racconto
http://m.youtube.com/watch?v=g-Ljg6K_ZbM



"Il ladro di pesche"
di Stanev Emilijan, Voland 1995.
In uno scenario di guerra nei Balcani dagli inquietanti riflessi attuali, 
una donna "misteriosamente bella" deve il suo risveglio all'amore a un prigioniero serbo, un colonnello bulgaro. Emilijan Stanev, il maggiore 
dei classici contemporanei bulgari, penetra alle radici del cuore umano
e della storia.


LA LEGGENDA DEL PESCATORE TARO URASHIMA

Molto tempo fà sulle rive nel mar del Giappone viveva un pescatore di nome Urashima conosciuto da tutti per la sua grande abilità sia con la canna da pesca che con la rete.
Un giorno tirando le reti sulla sua barca pescò uno stupendo esemplare di tartaruga che probabilmente gli avrebbe fatto guadagnare un bel pò di soldi in più rispetto ai soliti ricavi per la vendita di pesce comune. Il buon Taro però era d'animo sensibile e tra se e se pensò che non aveva il diritto di uccidere un animale che sarebbe vissuto almeno altri 1000 anni così liberò la sua preziosa preda.
Il peso dell'animale lo stancò tanto da farlo sdraiare sul fondo della barca, così poco dopo si addormentò contento per la sua buona azione mentre le onde lo cullavano.
Al suo risveglio (ormai al tramonto), Taro si alzò stropicciandosi gli occhi e sbalordito vide una bellissima ragazza seduta nella sua barca.
Aveva la pelle color della luna, i capelli color del sole e gli occhi color del mare.
Subito il ragazzo gli domandò chi fosse e lei rispose dicendo di essere la figlia del dio del mare, che viveva nel profondo degli abissi al palazzo dei draghi insieme a suo padre. La tartaruga che lui aveva risparmiato era in realtà lei stessa. Il dio del mare infatti aveva trasformato sua figlia nel rettile marino per fargli scoprire se Taro fosse d'animo buono in quanto la sua fama di pescatore era giunta sino alle loro orecchie.
La ragazza gli disse che ora era sicura della sua bontà e che lui non avrebbe mai ucciso le creature del mare "gratuitamente" se non per la propria sopravvivenza, così gli annunciò felice che il padre voleva che si sposassero e vivessero per 1000 anni nel palazzo dei draghi al di là del profondo mare azzurro.
Urashima che amava l'avventura e si era innamorato a prima vista di quella fanciulla, non se lo fece dire due volte.
Così, preso un remo ciascuno, i due giovani cominciarono a remare e il giorno dopo alle prime luci dell'alba arrivarono nel regno dove il dio del mare governava sui draghi, sulle tartarughe e su tutti i pesci.
Non appena Urashima vide il palazzo del dio del mare illuminato dalle prime luci del mattino, gettò un grido di meraviglia.
Le pareti erano di corallo, gli alberi avevano smeraldi per foglie e rubini per frutti. I pesci che guizzavano intorno avevano squame d'argento e i draghi avevano code d'oro massiccio. Neanche nelle sue fantasie più sfrenate il giovane pescatore avrebbe immaginato un luogo di così incommensurabile bellezza.
In più, visto che stava per sposare la figlia del dio, tutto quello che vedeva sarebbe stato suo. Per la felicità era al settimo cielo.
Una volta celebrato lo sfarzoso matrimonio i due sposi cominciarono la loro agiata vita in quel regno meraviglioso, passeggiando tra i giardini di pietre preziose e ricevendo ogni giorno le visite e gli omaggi delle tantissime creature del mare di cui erano sovrani.
Passarono tre anni di gioia e amore reciproco ma arrivò il giorno in cui Urashima sentì fortemente la nostalgia del suo paese, della sua casa e naturalmente della sua famiglia della quale non aveva saputo più niente nonostante le continue domande fatte ai suoi sudditi.
Così Taro disse alla moglie del suo desiderio di tornare a casa per vedere in che condizioni fossero i suoi cari, in quanto lui stesso con la sua pesca era stato il più grande sostentamento della sua famiglia ed ora aveva paura che fossero caduti in povertà. 
Promettendo di tornare presto a palazzo si apprestò a partire.
La sua sposa era triste per la sua decisione ma sapeva però che non avrebbe potuto fermarlo, e gli disse:
– Taro, vedo che sei malato di nostalgia, ti stai struggendo dal desiderio di ritornare fra i tuoi. Non sarò certo io a trattenerti; va’ dunque, la tartaruga che ti ha condotto qui, ti riporterà a casa. Porta con te questo scrigno, ma mi raccomando vivamente di non aprirlo per nessuna ragione al mondo, se non vuoi perdermi per sempre.
Così detto Taro prese la stessa barca con cui era arrivato con la principessa la prima volta e con la scatola magica si diresse verso la riva del Giappone dove si trovava il suo paese.
Quando finalmente giunse a destinazione, ossia alla riva da dove era partito a pescare ben tre anni prima, quasi non riconosceva più niente dei posti dove era cresciuto e dove aveva pescato fino a pochi anni prima.
Di uguali c'erano solo le montagne, il ruscello che passava vicino casa, ma gli alberi per esempio erano tutti tagliati e non c'era traccia nè della sua casa nè del villaggio.
Preoccupato cominciò a seguire il torrente per trovare le donne che erano solite lavarci i panni e chiedere quindi spiegazioni, ma niente, nemmeno una all'orizzonte.
Seduto a terra venne colto dalla malinconia e dalla tristezza e cominciò a piangere pensando alla sua amata sposa.
Ad un tratto vide venire verso di lui due uomini che non conosceva e raccolto un pò di coraggio andò loro incontro per chiedere loro dove fosse ora la casa del pescatore Urashima che un tempo abitava questo luogo. 
A questa domanda i due sconosciuti fecero una faccia sbalordita.
-La casa di Urashima ? - dissero - Ma se sono 400 anni che Urashima è annegato mentre pescava e anche i suoi parenti, nipoti e nipoti dei nipoti sono morti da molto tempo ormai. Come potete ricordarvi di lui e chiedere della sua casa? Sono centinaia di anni che è caduta in rovina ed adesso non restano neppure le pietre. -
Taro si guardò attorno smarrito con gli occhi lucidi di pianto e pensò che il meraviglioso palazzo del dio del mare con tutte le sue magnificienze appartenevano al mondo delle fate dove un giorno aveva la durata di un anno e gli anni la durata di secoli. Capì che nulla ormai lo legava al suo paese, visto che tutti i suoi cari e gli amici erano morti e che Taro Urashima era solo una leggenda del luogo ormai. 
Adesso il desiderio di tornare dalla sua amata sposa era più forte che mai, ma non sapeva come farvi ritorno in quanto si era dimenticato di chiederlo alla principessa.
Pensieroso si ricordò della scatola magica e la rimirò a lungo pensando che probabilmente aprendola avrebbe trovato il segreto per ritornare al palazzo del dio marino.
Detto fatto, Urashima aprì la scatola disobbedendo alla sua sposa.
Da sotto il coperchio prezioso uscì una specie di nuvola di fumo azzurro che si involò rapida sull'oceano. Taro le gridò, le corse appresso ma non ci fu niente da fare.
Con le lacrime agli occhi pensò che ormai aveva perso ogni possibilità di rivedere la sua sposa che lo aspettava nel palazzo dei draghi dove era vissuto felice per tanti anni.
Mentre correva dietro alla nuvola ad un certo punto si sentì mancare le forze. Smise di correre e di gridare. 
Improvvisamente i suoi capelli si fecero bianchi, il suo viso si coprì di rughe profonde e la schiena gli si incurvò come quella di un vecchio decrepito.
Alla fine il suo respiro si fermò e cadde riverso sulla spiaggia da dove era partito tanti anni prima verso il paese dei sogni.
Di quando in quando, specialmente durante lo notti di luna piena, i pescatori che si spingono nelle acque di Sugeka, odono, proveniente dal mare, una voce flebile, angosciosa, che chiama, chiama disperatamente, ed essi, mormorando tra i denti una rapida preghiera a Budda, dicono:
– È Otime che chiama Taro, il suo sposo.




Nella mitologia cinese il pesco è considerato, da millenni, l’albero dell’ Immortalità e della Primavera.
E' considerata anche un frutto fatato, simbolo di buon augurio, ricchezza e lunga vita: non a caso il dio cinese della longevità è spesso raffigurato mentre emerge da una pesca e per il Buddhismo è uno dei tre frutti benedetti.
Si crede che nutrendosi del frutto di questo albero, questo preservi il corpo dalla corruzione.
Nel 1977 in Cina venne ritrovato il corpo della moglie del marchese di Tai, perfettamente intatto, risalente al II secolo avanti Cristo: nella tomba vi era una ciotola di pesche.
Infatti una leggenda cinese dice che le pesche mangiate in "tempo" preservavano il corpo dal deteriorarsi. Per il taoismo è il frutto dell'immortalità.

La credenze non tralasciano nemmeno il legno della pianta di pesco, oggetto di superstizione in Oriente. Questo, lavorato in forma di spada, è usato dai monaci per effettuare gli esorcismi.
Gli oggetti d’arredo e i mobili scolpiti in legno di pesco, oltre alla funzione decorativa, assumono una funzione di protezione della famiglia, della casa, dai pericoli della vita e dai fantasmi.



Shou Xing
SHOU XING.
Il Dio cinese della longevità e della salute, originariamente era un saggio che, mangiando delle pesche magiche, ottenne l’immortalità.
Viene raffigurato come un vecchio, con la testa che richiama la forma di una pesca, calvo e con una lunga barba, con in mano una pesca.


Xiwangmu
Mitico personaggio femminile cinese, letteralmente «Regina madre occidentale», sovrana di un favoloso regno tra i monti Kuenlun dove maturerebbero le pesche dell’immortalità. Se ne parla già nel Shanhaijing («Libro dei monti e dei mari»), il cui primo nucleo risale al 5°-3° sec. a.C.


Nel Libro dei monti e dei mari, risalente al terzo millennio a.C., viene descritto un gigantesco pesco, che occulta fra i suoi rami la Porta degli Spettri, custodita da inflessibili custodi, i quali lasciano entrare solo chi è meritevole di vivere in eterno.



In Giappone il pesco è venerato quale protettore contro le forze malefiche e associato agli esorcismi.
La fioritura del pesco simboleggia Rinnovamento, Rinascita, Bellezza, Gioventù, Purezza e Fedeltà matrimoniale.

Nell’antico Egitto era il frutto sacro di Arpocrate, dio del silenzio e dell’infanzia: per questo ancora oggi le guance dei bambini sono paragonate alla pesca. La foglia di pesco invece, appuntita ed affusolata, è simbolo di Silenzio.

Per il Buddismo la pesca rappresenta uno dei Tre Frutti Benedetti, insieme al cedro e alla melagrana.

Per il Taoismo il pesco è l’Albero della Vita nel paradiso Kun-lun, poiché conferisce l’immortalità e la pesca è il cibo dei geni, o immortali taoisti.
La pesca, insieme alla fenice, è emblema di Si Wang Mu, Regina del Cielo.
I noccioli di pesca vengono intagliati per ricavarne talismani ed amuleti usati apotropaicamente.

In Occidente donare un ramo di pesco è sinonimo di dichiarazione di Ammirazione e Dedizione.

Nel simbolismo cristiano, la pesca è il frutto della Salvezza, perciò compare spesso nei dipinti della Vergine con il Bambino; il frutto con le foglie attaccate al picciolo rappresenta la felice combinazione delle virtù del cuore e della parola.

Secondo Rutilio Tauro Emiliano Palladio, scrittore latino di fama, Giuliano, l'ultimo imperatore romano pagano fece abbattere gli alberi di pesco in tutto il territorio imperiale, a causa del detto biblico che Gesù Cristo si fosse rifugiato sotto un pesco con la famiglia mentre fuggiva in Egitto. Nella stessa simbologia Cristiana infatti le pesche rappresentano la salvezza, venendo anche raffigurate nei dipinti con la Vergine Maria e il Bambino Gesù.

In Europa è l’albero maledetto degli stregoni che guariscono i loro pazienti trasferendo sull’albero il loro male.

A Marsiglia si diceva che bastava addormentarsi con la schiena appoggiata a un pesco e restarci per due o tre ore per far passare la febbre che sarebbe passata all’albero le cui foglie sarebbero ingiallite e cadute.

Altre tradizioni dicono che le foglie tritate, poste sull’ombelico, ammazzino i vermi e che  se si soffre di febbri intermittenti bisogna alzarsi di notte ed abbracciare il tronco di un pesco fiorito: in questo modo noi guariremo e ad ammalarsi sarà l’albero.


E per finire qualche curiosità:

Esiste una varietà di marmo estratto in Toscana che viene definito persichino.

Lo stato della Georgia, uno dei 51 stati degli Stati Uniti d'America, è soprannominato "Peach State",  per l’estensione delle sue coltivazioni di pesca.

Nel 1875 Samual Rumph riuscì a coltivare un tipo di pesche prive di nocciolo.

E come già è successo per l’albicocca anche la pesca ha dato il suo nome a una tonalità di arancione, che ricorda il colore della pelle interna del frutto.

Nessun commento: